Scultore delle Marche meridionali | Angelo annunciante e Vergine annunciata
19 maggio 2020
Tiziano Vecellio – Stendardo processionale del Corpus Domini
12 maggio 2020

Giovanni Santi
(Colbordolo, 1439 ante ? – Urbino, 1 agosto 1494)
Cristo morto in piedi nel sepolcro circondato dai simboli della Passione
1475-1482 ca.
Tavola, cm 25 x 20
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
inv. DE 233
Dalla chiesa di Santa Barbara in Campitelli di Urbino

 

 

Il piccolo dipinto appartiene a un gruppo di opere dello stesso soggetto che sembra aver avuto come prototipo l’affresco con il Cristo morto in piedi nel sepolcro tra i santi Gerolamo e Bonaventura, sovrastante il monumento funebre per Battista Tiranni nella chiesa di S. Domenico a Cagli, dipinto tra il 1481 e il 1482.
Nel nostro dipinto, Gesù emerge dal sarcofago dalla vita in su: il sangue fuoriesce a fiotti dalla piaga del costato, dai fori delle mani e dalla corona di spine conficcata intorno alla testa. Anche il volto mostra segni di sofferenza nelle guance scavate e livide e nelle palpebre infossate.
Gesù è circondato dagli strumenti della Passione: si possono vedere la colonna cui fu legato e la sferza con cui fu battuto durante la Flagellazione; sopra la colonna si trova il gallo simbolo del tradimento di Pietro e, accanto, la lancia con cui Longino gli trafisse il costato; vi sono i chiodi con cui fu fissato alla Croce e la spugna con cui gli fu dato da bere l’aceto; infine, sulla sinistra, è raffigurata la sua tunica e i dadi. A rendere ancora più apocalittica l’immagine, sono presenti, in alto, il sole oscurato e la luna piena.
Il dipinto presenta un’iconografia che riassume in sé gli episodi della Passione, sottolineando ancor più quanto sia imprecisa la definizione di “Ecce Homo” con cui spesso vengono designati soggetti di questo tipo, che vanno invece più propriamente indicati con la denominazione di “Vir dolorum”. Il tipo iconografico, che “formalmente riunisce motivi della Pietà e dell’Ecce Homo” (Varese 1994), rappresenta in realtà un Andachtsbild, ossia una “raffigurazione destinata alla meditazione sul mistero della Redenzione cristologica” (Tempestini 1999).
Il dipinto sembra precedere l’affresco cagliese o essere contemporaneo ad esso, per gli elementi stilistici che avvicinano le due opere: rispetto al Cristo con Santa Chiara o alla tavola di Pesaro con lo stesso soggetto, la resa dei volumi è infatti più schematica e caratterizzata da una maggiore secchezza nelle linee, così come accade nell’affresco della Tomba Tiranni. La vicinanza a quest’ultimo è inoltre confermata l’identità della conformazione del torace, dalla dolce inclinazione della testa, dal naso lungo e appuntino e dalla fisionomia della barba.
Nella tavola di Urbino manca ancora, infine, l’influsso “della tipologia e dello stile dell’arte di Perugino” degli ultimi anni Ottanta (Ciardi Dupré Dal Poggetto 1999), che invece addolcirà le figure delle altre opere del gruppo menzionato all’inizio.
Nel Cristo morto si evidenziano le esperienze artistiche cui Giovanni Santi aveva guardato durante la sua formazione: il modello del Cristo stante che emerge dal sepolcro, infatti, ha numerosi esempi in area veneta e nell’opera di Giovanni Bellini in particolare. Al pittore veneziano e all’influenza di Andrea Mantegna rimanda, inoltre, anche la concezione del disegno e della conformazione corporea del torace di Gesù.
Ranieri Varese collega la tavoletta anche con le opere di Carlo Crivelli, ma manca qui totalmente la spigolosità della pittura crivellesca.
Un certo influsso fiammingo, invece, si evince in un maggiore sforzo per una trattazione più “ariosa” dell’epidermide, indagata con “sottigliezza nordica” (Dal Poggetto 2003), probabilmente facendo riferimento ad esempi presenti a Urbino e alla presenza di Giusto di Gand a corte, anche se Santi non menziona l’artista nella sua Cronaca Rimata.
Il dipinto è stato attribuito da Luigi Serra a Giovanni Santi e quest’attribuzione è stata in seguito universalmente accettata dalla critica. L’opera proviene dalla chiesa di S. Barbara nella frazione di Campitelli vicino a Urbino, da dove è giunta nel 1925 alla Galleria Nazionale.
La tavola è stata restaurata nei primi anni Settanta del Novecento.

Valentina Catalucci

Condividi