Lo Studiolo del Duca
21 marzo 2016
Ritratto di Federico da Montefeltro e del figlio Guidobaldo, detto “Doppio ritratto”
21 marzo 2016

Raffaello Sanzio
(Urbino 1483 – Roma 1520)
Ritratto di gentildonna (La Muta)
Olio su tavola, 65,2 x 48 cm
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
inv. 1990 DE 237

La storia collezionistica di questo ritratto muliebre, che resiste in un tenace silenzio all’identificazione storica, ha un avvio sicuro nella Firenze dei primi anni del Settecento: lo si ritrova a Palazzo Pitti tra i beni del gran principe di Toscana Ferdinando de’ Medici (inventario del 1702-1710); nel 1713 è traslato nella villa medicea di Poggio a Caiano, nel 1773 agli Uffizi nella sala dell’Ermafrodito, quindi nella Tribuna. Non è rintracciabile invece con certezza nei precedenti inventari del 1666 (eredità del cardinale Carlo de’ Medici) e del 1631 (eredità di Vittoria della Rovere): in entrambi la descrizione dell’effigiata è troppo generica perché vi si possa identificare la nostra. Dal 1927 è in deposito permanente alla Galleria Nazionale delle Marche. Risale a Sangiorgi la proposta di un’originaria provenienza da Urbino e l’agnizione di Giovanna di Montefeltro (1463-1513), la figlia di Federico sposa di Giovanni della Rovere e madre del futuro duca Francesco Maria I. Essa tuttavia non sembra praticabile, vuoi perché un personaggio così cruciale per le sorti del ducato forse sarebbe stato ancora riconoscibile dagli estensori degli inventari rovereschi, vuoi perché, negli anni dell’esecuzione del dipinto, Giovanna avrebbe avuto più di quarant’anni (e alle spalle sei gravidanze), un’età troppo alta per la donna ritratta.
Le approfondite indagini diagnostiche condotte nel 2014 dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze hanno permesso di superare alcune ipotesi sulla genesi ‘sofferta’ del dipinto, che si riteneva realizzato in due momenti distanti tra loro circa un lustro. La presenza di numerosi pentimenti nella foggia dell’abito e nei lineamenti del volto aveva infatti rafforzato l’ipotesi che fosse stato ritoccato a seguito di un evento luttuoso, suggerito anche dal colore verde dell’abito. Recenti studi sulla moda fiorentina del primo decennio del Cinquecento hanno invece riportato l’attenzione sul milieu borghese attraverso cui questa commissione sarebbe potuta giungere a Raffaello. I gioielli che sobriamente adornano il petto e le mani della Muta, nonché la scelta dei preziosi veli di seta che ne incorniciano il capo e le spalle, il guanto (o fazzoletto) stretto tra le mani, la ricercatezza dei colori dei tessuti rimandano alla rigida codificazione sociale imposta dalle leggi suntuarie fiorentine del tempo, e raccontano della ricchezza della donna e del ruolo ricoperto nell’economia familiare (si pensi al grembiule che ne cinge la vita).
Nei tratti affilati e dignitosi del volto, il cui sguardo è reso ancor più intenso dalle labbra serrate, il pennello indaga con minuzia i dettagli fisici con una luce che è già oltre il caldo lume razionale ‘urbinate’. Il disegno soggiacente la pittura mostra come Raffaello abbozzasse sinteticamente gli occhi, il naso e le labbra; fu invece più faticoso per lui lo studio della posa, variata nell’altezza e nell’apertura delle spalle, nonché nella posizione delle mani. Il pittore, complice anche il difficile tre quarti, si confronta qui con la ritrattistica di Leonardo (dalla Ginevra de’ Benci alla Monna Lisa), in continuità con quanto esperito nella Maddalena Strozzi Doni degli Uffizi e soprattutto nella Gravida di Palazzo Pitti. È altrettanto forte il debito verso la ritrattistica di matrice nordica, sia nel trattamento delle mani, sovrapposte sul limite inferiore del dipinto (si presti attenzione all’indice della mano sinistra che mostra qualcosa al di fuori della tavola, sia nell’uso del fondale scuro, attraverso cui è isolato il volume composto della figura e messa in risalto la virtuosistica resa dei tessuti.

 

Giovanni Russo

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